Banalizzare un fenomeno, un processo o un rapporto vuol dire non averne contezza. Banalizzare qualcosa di estremamente complesso non solo implica il non averne contezza ma induce a sottovalutare pericolosamente le implicazioni che quel processo potrebbe generare, impedendo di immaginarne le traiettorie o linee di tendenza negli anni a venire. È oramai un fatto che la realtà nella quale viviamo sia molto più complessa di quella che si conosceva appena un paio di generazioni fa. Una complessità che si estrinseca non solo nella compagine tecnologica del nostro vissuto ma nelle profonde trasformazioni che negli ultimi trent’anni hanno modificato radicalmente alcuni rapporti socio-economici tanto a livello micro che a livello macro sociale.
Il fatto di aver interconnesso e innervato ogni singola regione del mondo con le altre, ha avuto come conseguenza quella di aver reso interdipendenti aree del pianeta che fino a pochissimo tempo fa ignoravano l’una l’esistenza dell’altra. Un esempio su tutti può essere rappresentata dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio: se in un qualche angolo di mondo nel quale passa uno dei più grossi oleodotti del pianeta accade qualcosa, il giorno dopo le borse aprono con un “certo nervosismo” e in men che non si dica a Canicattì o a Vincuran il prezzo della benzina sale di 10 centesimi. Continuando con l’ esempio dell’economia finanziaria e provando a comprendere quanto la rete di comunicazioni globali ne abbia ampliato gli effetti, tanto in termini intensivi quanto estensivi, possiamo avere un’idea, seppur vaga, della complessità con la quale dobbiamo fare i conti quando parliamo di “sistema”. Sistema ovviamente inteso nel senso di insieme delle istanze di dominio di una parte di popolazione mondiale su tutto il resto.
Nello spazio di un articolo non è ovviamente possibile essere completamente esaustivi su tematiche tanto intricate ma questa necessità di sintesi non deve e non può essere assunta come attenuante per banalizzare una serie di relazioni e fattori che muovono un meccanismo estremamente sofisticato. È appunto questo l’equilibrio che va sempre tenuto presente nella sua assoluta rilevanza – cioè la differenza fra la semplificazione concettuale di un problema e la sua banalizzazione. Questa premessa, pur apparendo nebulosa, è d’obbligo per fornire un punto fermo per orientar tutta l’analisi che seguirà. Nelle righe che seguiranno si cercherà di sottolineare alcuni atteggiamenti che evidenziano una vera e propria capitolazione rispetto alla volontà di comprendere la realtà nella quale viviamo. Non vorrei usare la tanto inflazionata metafora dello struzzo ma essa appare purtroppo quella più calzante pur nella sua apparente inconsistenza.
Vado a spiegarmi. Se per esempio prendiamo l’approccio primitivista e lo analizziamo con quanto poc’anzi esposto, potremmo sintetizzare tale atteggiamento come una contrapposizione banale alla tecnologia. Ossia, dal momento che la tecnologia industriale, legata alla produzione di merci e servizi e quindi in un certo qual modo determinata come vettore dello sviluppo e della crescita indefinita, è foriera di inquinamento, adulterazione del cibo, spreco, consumo estrattivista ecc. ne consegue, in questa logica ridotta al pro e contro, che l’alternativa a tutto ciò sia un ritorno ad una dimensione priva di molti degli orpelli della tecnologia. Orbene questo atteggiamento, appare esattamente come quello dello struzzo che preferisce non guardare quel che accade. Cioè si parte da un presupposto che sia la tecnologia la causa dei mali del mondo nel momento in cui si riuscisse a farne a meno avremmo risolto molti dei nostri problemi.
Qui, a mio modesto parere, c’è esattamente un problema di banalizzazione dei fenomeni in atto. Si dimentica che la tecnologia non è un qualcosa di autonomo rispetto ad una volontà che ha lo scopo di perseguire un profitto. Se dimentichiamo questo punto, si perde quel prezioso equilibrio e si rischia di passare semplificazione sintetica di un concetto alla sua banalizzazione. La tecnologia è un fatto strumentale: se le sue potenzialità venissero impiegate non per raggiungere un profitto senza limiti ma per garantire una qualità della vita migliore per ogni individuo, mettendo a disposizione cibo sano, elementi naturali non inquinati, cure reali e non palliativi oppure diminuire le ore di lavoro ecc. ci sarebbe un diverso utilizzo degli strumenti tecnologici a favore dell’ecosistema mondo e non solo a favore di pochi soggetti dominanti.
È un po’ come avere una cassetta degli attrezzi e utilizzarli per fare danni invece che per riparare strutture di uso comune, o molto peggio utilizzare quegli attrezzi come armi improprie invece che come strumenti per migliorare la qualità dell’esistenza di una comunità. Per delineare quale sia lo scopo migliore da perseguire utilizzando determinati espedienti tecnologici molto spesso basterebbe il buon senso. Se gli effetti collaterali di un certo processo sono maggiori dei benefici collettivi, quel processo non ha ragion d’essere. O ancora, se l’abuso di un certo processo produttivo o di una particolare tecnologia causa più problemi di quanti ne risolve, quel tipo di utilizzo è probabilmente quello peggiore.
Il problema qui non è tanto far capire a chicchessia quali sono i reali vantaggi o gli svantaggi di un certo processo, di un certo apparato o di un certo tipo di tecnologia: si tratta di inserire quel fattore all’interno di un sistema complesso. Si ha un bel dire che le auto rovinano le città, inquinano e rendono la gente nervosa ma se l’apparato urbano, per favorire un determinato sviluppo industriale si è adattato al trasporto individuale più che a quello collettivo, è chiaro che raggiunto e superato il limite di traffico gestibile è andato in tilt, richiedendo soluzioni drastiche – drastiche si ma non risolutive. Si sono create nuove tangenziali, nuovi parcheggi periurbani, le ZTL, abbiamo rimpicciolito i veicoli inventando le citycar ecc. Ora i veicoli li facciamo elettrici così ci resta solo l’ingorgo m senza più i fumi e il rumore (tolti gli improperi e gli insulti degli automobilisti).
Anche qui siamo al cospetto di una soluzione assolutamente banale del problema, anche perché come nel caso precedente si pone l’accento sul fattore più evidente del problema – in altre epoche si sarebbe potuto parlare di epifenomeno ma oggi si rischia di passare per accademici – non sulle cause che lo hanno generato. Se il problema è gestire il crescente numero di veicoli in un contesto urbano abbiamo preso il toro per la coda, così come se consideriamo come produrre energia rinnovabile mantenendo però lo status quo di consumi e cercando soluzioni coerenti con un aumento quantitativo legato alla proliferazione dello stile di vita occidentale.
Quindi entrambe le facce della medaglia cercano soluzioni banali ad un problema, per ragioni ovviamente contrapposte. La prima non può mettere in discussione il modello di crescita capitalista, l’altra si rifiuta di andare oltre l’approccio individualista del comportamento ecologico. Da un lato chi gestisce il sistema applica correttivi che appaiono sempre più come rattoppi, dall’altro chi dice di combatterlo si barrica nello stile di vita individuale che dovrebbe essere incompatibile con tale sistema ma che finisce per suggerire nuovi ambiti di mercato.
Non è un mistero per nessuno, o almeno me lo auguro, che la richiesta di cibo biologico, partita come momento di rottura con la paccottiglia della grande distribuzione è stata sussunta come domanda di mercato inespressa, ragion per cui ci si è dati tanto da fare per dare una bella mano eticità e naturalità a quota parte della grande distribuzione per accogliere le richieste di chi voleva “mangiare sano”. Si è passati quindi dall’agricoltura intensiva a quella estensiva e si vanno a coltivare derrate alimentari bio devastando ettari di foresta vergine. Non è un mistero neanche che l’incedere di una cultura vegan, se non adeguatamente inserita come elemento di rottura all’interno del sistema, viene allegramente sussunta divenendo un’altra domanda di mercato inespressa alla quale dare seguito: da qui frotte di consumatori etici che divorano tonnellate di cibi derivati dalla soia per produrre la quale si polverizzano altri migliaia di ettari di foresta.
L’enucleazione delle contraddizioni problematiche della banalizzazione dei processi potrebbero andare avanti ma si rischierebbe solo di ripetere all’infinito lo stesso tipo di discorso, quindi è giunto il momento di orientare il ragionamento verso una sintesi conclusiva. Il sovratitolo di questo articolo recita “Banalizzazione della complessità nella crisi di movimento”. Dopo aver abbozzato una seppur sommaria spiegazione di quale sia il significato che la banalità assume nel presente discorso, cerchiamo ora di inquadrare il periodo storico nel quale viviamo come un periodo purtroppo contraddistinto da alcune pesanti lacune analitiche che inducono a banalizzare la complessità in atto. Questa tendenza fa il paio con l’altra ricerca di soluzioni banali a problemi complessi che il capitale mette in campo.
Se da un lato è però comprensibile che il sistema cerchi di autorigenerarsi senza “snaturare” i principi che lo regolano, in altre parole profitto a tutti i costi ed estrazione di plusvalore da qualsiasi fattore – umano, animale, vegetale o minerale che sia – quello che appare assai meno comprensibile è la banalizzazione dei problemi da parte di chi si dice antisistema. Una visione disarticolata del reale che non è in grado di coglierne la complessità si evidenza quotidianamente in alcune pratiche, tra le quali spicca l’iper-specializzazione delle lotte che si unisce ad una visione ristretta alla propria sfera di interesse nell’articolazione di dinamiche di conflitto.
Detto in parole più spicciole sembra quasi che ci si rifiuti di fare i conti con una realtà estremamente complessa e si preferisca rinchiudersi in pratiche circoscritte in linee di pensiero più gestibili. Il limite lo si nota inciampando in alcune “analisi” abbastanza melense, nelle quali giunti alla soglia della necessità di confrontarsi con la ragnatela di interconnessioni, della quale la problematica “X” rappresenta un nodo magari periferico, si chiudono gli occhi e si ficca la testa nella sabbia. Quindi si apre all’immaginario narrativo e suggestivo magari della riscoperta di pratiche antiche, giustissime per altro, senza però immaginare come queste possano ricucire o ritessere relazioni di comunità da contrapporre allo sfaldarsi della coesione sociale dettata dalla deriva individualista sostenuta dall’attuale sistema socio economico. Si intraprendono campagne sacrosante di occupazioni di alloggi, ma spesso capita che queste pratiche diventino quasi una sorta di servizio, dal momento che poi viene meno il lavoro di riconnessione relazionale tra individui o nuclei di individui che hanno un tetto sulla testa ma non riescono riempirsi lo stomaco, quindi finiscono col gonfiare la schiera di chi è costretto a fare la spesa ai discount.
È chiaro che per ragioni di spazio sto procedendo per accenni e forse sto incasellando esempi usando la scure piuttosto che il cesello, l’evidenza delle contraddizioni è però tale che dovrebbe essere sufficiente indicare la contraddizione che appare evidente come un rinoceronte che si nasconde dietro ad un lampione. La parcellizzazione delle pratiche antisistema, non trovando molto spesso una sintesi nella loro interazione, restano corpuscoli vaganti che non sono spesso (o troppo spesso) in grado di innescare molto più di uno starnuto. Se solo ci si fermasse a ragionare sulla necessità di essere sistema contro il sistema e non narrazioni anti qualcosa, forse si sarebbe quantomeno nella direzione un po’ meno errata
Come è possibile porsi come sistema altro? Questo è un interrogativo che mi ha sempre affascinato ed è l’interrogativo che ha generato teorie rivoluzionarie ed affinato teorie della rivoluzione, è un interrogativo che è destinato a rimanere inevaso ancora a lungo se non si comincia ad articolare un ragionamento complesso, se non si comincia a mettere a sistema le varie esperienze come parte di una soluzione complessa alla domanda di incompatibilità radicale col sistema attuale. Non può essere la narrazione bucolica sull’autoproduzione del sapone a mettere in crisi il sistema ma se questa pratica fornisce strumenti e presidi di igiene personale a schiere di persone indigenti forse siamo sulla strada giusta. Se i laboratori per la panificazione in casa si incrociassero con quelli sull’autocostruzione dei forni a legna e magari per sbaglio inciampassero in chi ha deciso di coltivare grano antico, il risultato potrebbe essere un forno di quartiere che da pane a chi ha perso il lavoro a fronte di un lavoro collettivo per produrlo.
Se sradicassimo certe pratiche dall’albagia borghese facendole diventare strategie di conflitto per risolvere problemi materiali attraverso un lavoro collettivo, forse passeremo dalla banalità dell’autonarrazione all’azione concreta. Da anarchico che parla ad altri anarchici non posso che rivendicare il lascito di chi ci ha preceduto che facevano dell’esigenza materiale il grimaldello per scardinare la narrazione borghese della “naturalità” della stratificazione sociale, che facevano della fame della gente il punto di partenza per l’organizzazione orientata a depotenziare l’egemonia delle classi patronali. Ricordiamoci chi siamo.
J.R.